Che buon profumo, ci sarà qualcosa di veramente appetitoso oggi a pranzo. Ogni volta è cosi, ci si convince attraverso il profumo che fuoriesce dalla cucina che ci sia qualcosa di veramente sfizioso da mangiare e invece “la solita minestra", ovviamente si fa per dire.
Scendo le scale di ferro per raggiungere l’aria, la pioggia della sera prima da un odore di pulito al cemento armato dei muri malandati.
I trasferimenti delle persone detenute da un carcere all’altro si fanno con pullman e furgoni della Polizia Penitenziaria, i blindati. Piccole scatole di metallo dove non si vede nemmeno la strada e ti manca la luce del sole.
Essere felici dietro a delle sbarre e a delle mura di cemento armato si può? La vita all’interno del carcere non è mai facile, ma la risposta a questa domanda può essere complessa o banale, dipende soltanto dal tempo trascorso e dalle motivazioni che spingono un essere umano a porsi questo quesito.
Tra dentro e fuori i contributi dei parteciapanti al Progetto Vallette al centro al nuovo numero di Letter@21.
Risale a molti anni fa, il mio debutto nel mondo del carcere. Ero giovane e incosciente e la cella era un’esperienza per avviarmi al crimine. I ricordi di quell’epoca sono sfocati, per molti versi amari e impossibili da dimenticare, quando il “tempo non passava mai”. Le mie giornate detentive erano cadenzate con un ritmo a dir poco lento e monotono, che facevo anche solo fatica a respirare e quando, per sfogare tutta la mia disperazione, la rabbia e l’angoscia, mi recavo nel cortile dell’aria, dove con i miei amici più fidati mi allenavo e progettavo la rapina perfetta.