Inutile dire che chi fuma sa che si sta rovinando la salute e buttando il suo denaro. I fumatori non fumano perché a loro piace farlo o perché vogliono, ma semplicemente se ne autoconvincono e lo ripetono anche agli altri per non perdere la stima in se stessi. Fumano perché si sentono dipendenti dalla sigaretta, perché forse pensano che li rilassi, che dia loro sicurezza e coraggio e che la vita senza fumo sarebbe molto meno piacevole.
Nel corso di una carcerazione, l’amante della lettura (e della letteratura) arriva a condensare nella sua cella una vera e propria biblioteca minima di galera.
Premesso che storicamente il fumo è quell’abitudine che raccoglie e unisce le persone in un’aggregazione, che un tempo era anche un comportamento antropologico (le tribù indiane con i calumet riunite per decidere un qualcosa), fumare, con la scoperta dell’America e del tabacco, è divenuto anche un nuovo modo di comunicare fra le persone, un comportamento acquisito, che si è trasformato in una caratteristica di una specifica personalità che distingue chi fuma da chi non fuma.
Il carcere è un luogo dove spesso si passano intere giornate tra detenuti a raccontarsi e parlare di chi si era, di cosa si faceva fuori, un po’ per vanto un po’ per ammazzare il tempo. C’è chi però ha avuto una realtà lavorativa un po’ inconsueta, come nel mio caso, e la gente non ti crede se racconti che per vivere vendevi zebre, cammelli, e molti altri animali esotici.
Dunque, da dove iniziare, coltivare affetti familiari all’interno di un carcere è molto difficile per le condizioni in cui versano i detenuti.
Vademecum del politically correct
Alle volte i pregiudizi, i luoghi comuni umani, possono condizionare scelte che nel tempo si rivelano non esatte. Accade spesso e, per quanto lo si possa sperimentare, si è sempre pronti a ricadere nel baratro del presumere che una data cosa sia quello che ci appare.