La perquisizione, il passaggio in Matricola, dove lasci quello che non puoi portare con te, il lungo cammino fino alla tua prima cella, le parole di presentazione con il nuovo “concellino”. È un mondo nuovo, con norme completamente diverse che vanno metabolizzate in fretta, è questione di sopravvivenza.
Ma quello che veramente ti fa capire che la vita civile è finita è il primo impatto con il carrello del vitto.
In Italia non ci sono le mense collettive dei film americani, quelle dove di solito l’eroe del film dà una lezione a un gruppo di cattivi con una padellata di olio bollente in faccia (non avete mai visto Watchmen? Guardatelo!). Qui nel Belpaese una situazione simile sarebbe ingestibile. Già ci sono problemi quando il vitto è servito cella per cella con i detenuti chiusi in coppia all’interno, figuriamoci se lo servissero in una sala mensa... Sarebbe “l’ApocalypseGnam”...
Compito infausto quello del portavitto di turno, il detenuto che solitamente per un periodo di alcuni mesi porta in sezione un carrello di acciaio inossidabile, proveniente dalla cucina centrale del carcere. Il carrello contiene tre teglie di cibo da distribuire. Sotto di esso un ripiano in cui sono riposte la cesta del pane e la cassetta di frutta.
Il “suo” ingresso in sezione è annunciato da un grido improvviso.
– Si mangiaaaaa! – Il segnale che è arrivato il portavitto.
Si avvicina alla prima cella, dalle sbarre del blindo spunta un braccio spesso tatuato e la mano (anch’essa sovente tatuata) porge il piatto fondo di plastica bianca, che fa da contrasto con il grigiore del luogo, per ricevere la porzione di pasta. Ritirato il primo piatto in cella, “il detenuto Alpha”, porge il piatto piano per ricevere la seconda portata (carne o pesce; oppure fetta di mortadella, prosciutto o salame; o ancora porzione di frittata o mozzarella/formaggio spalmabile confezionati o uova sode), a seconda del menù di giornata che varia quotidianamente, ma che resta fisso nel tempo...
Nel frattempo dalle altre celle le voci di sollecitazione incalzano.
– Portavitto, muoviti che ho fame!
− Mado’ quanto sei lento, fossi io il portavitto avrei già finito di distribuire sta sbobba!
Intanto gli osservatori del “controllo quantità”, dopo aver esaminato attentamente la distribuzione del primo piatto, prontamente ammoniscono.
– Vedi di non fare come ieri che a lui riempi il piatto e a me ne dai un assaggio, non fare il furbo!
Mentre osservi il primo atto dell’inedito spettacolo “Il mio primo pasto in carcere”, d’un tratto giunge davanti alla tua cella l’attore protagonista, il portavitto appunto, che con sguardo indagatore ti chiede…
− E tu chi sei? Da dove sei sbucato?
Prima di aprire bocca e rispondere, rifletti un attimo per cercare di “nascondere” il tuo status di neo-carcerato, ma l’effetto non produce quanto desiderato. La parte di attore non si addice ai Nuovi Giunti, pertanto rispondi con tono e modo sinceri, così come eri abituato fare fino a qualche ora prima da uomo libero.
− Piacere, Beta, sono arrivato oggi. Cosa c’è di buono?
Naturalmente in realtà hai appena fornito a lui un assist al bacio per sgamarti.
− Mado’ sei appena arrivato da fuori! – Gool.
− Di buono? A Beta di buono qua nun c’è stà nnente. Beccati sta sbobba e buon appetito... – Triplice fischio finale.
Se qualcuno alla fine della distribuzione rimane senza vitto o ritiene di averne avuto meno del dovuto (succede non di rado), il clima si arroventa anche se la temperatura è bassa.
Tutto questo col passare del tempo diventa un evento fisso della “quotidianità detenuta”. Ci si abitua, a questo… e ad altro.
Ma la prima volta è un vero battesimo carcerario. A iniziare dagli orari: se la colazione arriva a un orario normale (dalle 7:30 alle 8:00), il pasto delle 11:30 e la cena delle 18:00 ti conducono direttamente a vivere con un fuso orario differente rispetto a quello della libertà, con conseguente jet lag da affrontare.
All’inizio ti senti offeso da questi orari da Casa di Riposo.
«Che incubo... pranzare alle 11.30? Ma stiamo scherzando? Io alle 11.30 sono abituato a prendere il secondo caffè della mattinata, tra un appuntamento di lavoro e l’altro. E adesso devo mangiare la pasta e la frittata? Ma dove sono finito», ti domandi.
E se il pensiero è ad alta voce il concellino con serena naturalezza risponde ─ Sei in galera fratè. Abituati.
I piatti e le posate sono rigorosamente in plastica, uno piano ed uno fondo. Non sono usa e getta, ma lavabili, e il carcere fornisce il liquido per lavarli. Ma le posate...
Le posate sono friabili come i grissini.
Se affondi deciso la forchetta per acchiappare “i tortiglioni al sugo smarrito…” ecco che ti sei giocato almeno il primo dei quattro “denti” della posata. Se poi dopo tenti (invano) di tagliare la fetta di carne ecco che il coltello si spezza in due. D'altronde a che servono le posate, Carlo Magno insegna, in galera ci si può sentire un suo commensale ad un banchetto nel clima freddo di Aquisgrana.
Ecco come si può a volte affrontare la galera… con fantasia.
Redazione
Illustrazione: G. D'Ursi (Eta Beta Scs)

