Venerdì, 04 Dicembre 2020 12:27

Il carcere e la paura del Covid 19

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È difficile non considerare il virus un mostro. È riuscito a dimostrare che siamo tutti mortali, che le nostre vite sono molto fragili.

Sono stati tre mesi da incubo quelli tra marzo e giugno, in cui chi era “fuori” ha vissuto una “chiusura totale”, mentre dal carcere non usciva neanche una mosca per non far crescere il nemico.

Cercando di fermare il mostro con misure drastiche è stata, però, fermata anche la vita quotidiana, la normalità è quasi morta. Quando la morte si presenta con la sua vera faccia, fa paura, distrugge ogni cosa, sono stati mesi difficili per tutti, quelli d’inizio anno. Sembrava che la vita si fosse ripresa a metà giugno, ma era una beffa!
Siamo a dicembre e siamo piombati in un nuovo quasi lockdown, anche se mitigato. Solo il pensiero di un nuovo confinamento ripropone paure e paranoie. È inevitabile, la situazione si sta ripetendo, il nemico è a fianco a noi, difficile da accettare, ma i contagi lo confermano.

Il lockdown, non poteva essere altrimenti, è arrivato anche in carcere e a nulla può servire il pensiero “voi siete già chiusi non cambia niente”, perché non è cosi. Con il sovraffollamento presente nelle carceri, a Torino torna l’incubo della Palazzina dei semiliberi, con il timore di molti di essere nuovamente rinchiusi, ad aspettare che qualcosa migliori. Una situazione non facile “un po’ come se ci si ferisse su una ferita che si aveva già .”
Anche qui come ai blocchi se si vuole i colloqui visivi si possono fare, ma con l’emergenza questi sono stati sospesi, così come i pacchi postali. Solo gli avvocati possono accedere.
In realtà le persone che escono in semilibertà o con l’art.21 e che hanno un alloggio, potrebbero ottenere una licenza per non dover rientrare, come stabilito ex art. 28 del D.L 28/10/2020 n. 137 per porre rimedio all’emergenza sanitaria da Covid-19 in carcere, allo scopo di potersi recare in seno al nucleo familiare. Strumento che potrebbe rivelarsi utile per alleviare il sovraffollamento e di conseguenza contenere il virus, se venisse applicato per tutti, ma che si scontra spesso con alcune disposizioni di sicurezza, limitandone l’accesso. Riportando in questo modo, chi non può uscire, alla condizione di “nuovi giunti.”
Si potrebbe anche obiettare che in carcere si sia al sicuro, ma vivere in carcere senza sapere cosa succede ai tuoi famigliari o poter comunicare con loro, significa vivere con la paura di essere contagiati e di non avere i propri cari a confortarti e sostenerti, oltre che inconsapevoli della condizione.
Un inferno che ti uccide dentro e devasta psicologicamente.
Il Covid-19 non appiattisce solo i nostri polmoni, ma anche la mente e la nostra vita.

Così si ritorna ai giorni di marzo dove il rumore delle chiavi e dei cancelli mischiato al suono del saturimetro macinava il cervello, ricordandoci che la nostra esistenza dipende dallo sviluppo dell’infezione, generando paura, una delle emozioni primordiali umane, e il Covid la alimenta anche in carcere.

Redazione

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