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Martedì, 17 Gennaio 2017 10:19

Il carcere visto dai giornali

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“Un patto nato in cella per evadere insieme grazie ai permessi”, “I due pericolosi criminali erano in licenza. Ora sono in fuga” potremmo continuare per tutta la pagina con i titoloni ad effetto comparsi negli ultimi tempi per raccontare fatti di cronaca legati a dei detenuti.  In un periodo storico nel quale la narrazione populista e demagogica la fa da padrone la strillata notizia non fa altro che innalzare pericolosamente il livello dei decibel emotivi al solo fine di bucare lo schermo o “fare” lettori.

La conseguenza? A sentire le interviste passate in tv la reazione è un sempre più convinto “ma perché li fanno uscire, dovrebbero buttare la chiave!!”.
Mentre le notizie positive e i racconti delle attività che creano un futuro per i detenuti sono raccontate con professionale distacco quando si parla dei fatti che attengono ai crimini, alla pena e alla sua esecuzione  si esce dalla cronaca cercando di agitare i sentimenti che hanno a che fare con l’insicurezza e la paura. In questi casi l’enfasi emotiva non dà solo un immagine distorta della realtà, ma contribuisce a cambiarla.
Si crea così il cosiddetto “sentire comune”, la battuta da bar che fomenta il dibattito indignato, con prese di posizione tanto indignate quanto disinformate.
Da lì parte un pericoloso circolo vizioso: il carcere fa crollare gli ascolti a meno che non venga raccontato in un certo modo, puntando sul voyerismo più che su una sana curiosità, meno che mai sulla conoscenza. La conoscenza non ha appeal mediatico. Solo i fatti eclatanti infiammano l’opinione pubblica suscitando levate di scudi all’insegna della tolleranza zero o al contrario del buonismo, pietismo e perdono.
La superficialità, l’abuso degli stereotipi, la pressante leva sulla paura, sul pregiudizio e sull’ignoranza non fanno altro che acuire quella vistosa spaccatura, che ormai sta divenendo tipica del dibattito pubblico, tra due inconciliabili ed invalicabili muri: quello di chi vorrebbe soltanto buttare la chiave e quello degli abolizionisti.
Su questa falsariga diventa ancora più difficile la costruzione in concreto di un carcere diverso, aperto, che incarni il mandato costituzionale e quindi rispettoso dei diritti del detenuto e della finalità risocializzante della pena, che chiami i detenuti all’autodeterminazione e alla responsabilizzazione, che dialoghi continuamente con l’esterno.
Oggi, grazie molto a come i media veicolano il tema, la rappresentazione del carcere è stereotipata (oscillando pericolosamente tral’allarmismo o il vittimismo) perpetuando l’attuale condizione patogena, criminogena, illegale e fonte di insicurezza per la collettività.
Per cambiare verso a volte basta poco, ad esempio che negli articoli i cui titoli abbiamo citato qualche riga fa ricordassero come le evasioni e i reati commessi durante la fruizione di un permesso premio fanno parte dello zero virgola per cento e che per i restanti 99,9 le misure alternative sono un indispensabile, e vantaggioso,strumento per la collettività, visto che aiutano ad abbassare sensibilmente i tassi di recidiva.

(Giusto per la cronaca, al 30 settembre 2016 le persone che godevano di misure alternative al carcere – affidamento in prova al servizio sociale, detenzione domiciliare, lavoro di pubblica utilità ecc.- erano 32.961 e di queste solo lo 0.79 per cento ha commesso un nuovo reato nel periodo di fruizione del beneficio).

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