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Mercoledì, 22 Marzo 2017 12:15

Cattivi, di Maurizio Torchio

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La sensazione che ho avuto leggendo questo libro è che qualcuno stesse svelando dei miei segreti. Tra le pagine ho ritrovato una descrizione talmente vivida, precisa ed emozionante di particolari di vita penitenziaria che mi ero convinto che lo scrittore fosse sicuramente stato in carcere.

E invece no, non ci è stato, ma il racconto in prima persona della prigionia del carnefice e della vittima è, grazie ad una scrittura secca ed asciutta, potente, intensa e perfettamente aderente alle sensazioni che si provano da reclusi. La descrizione della cella (“la  cella è lunga quattro passi e larga un paio di braccia tese. Se mi alzo in punta di piedi tocco il soffitto..”) fa nascere quel senso di claustrofobia che si prova ogni volta che chiudono i blindi e il racconto dell’uscita in permesso, dopo tanti anni di detenzione, di un recluso è stato toccante, commovente quanto più posso affermare che è vero.
Non lo so se il microcosmo del carcere è adeguata metafora della vita (lo scrittore Petroni disse “il mondo è una prigione”), ma alcune frasi del libro sono il perfetto compendio del mio pensiero rispetto alle detenzione: “Il carcere non serve a restituire al mondo. È fatto per chiudere, coprire, cicatrizzare. Può chiudere in modo sporco e caotico, oppure sterile e giusto”.

Maurizio Torchio, Cattivi
Einaudi

[D. G.]

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