Martedì, 08 Marzo 2016 16:36

L’eco delle parole

Vota questo articolo
(1 Vota)

William Russel fu il primo reporter di guerra; inviato per il Times in Crimea durante la guerra del 1853-1856, scriveva articoli che per arrivare in Inghilterra venivano consegnati a un ufficiale e poi a un corriere dell’esercito che li lasciava nella più vicina stazione di posta. Prima che i lettori del quotidiano potessero leggere le notizie passava davvero tanto tempo.

La famosa “carica dei 600”, avvenuta durante la battaglia di Baklava, si concluse il 25 ottobre 1854, ma i lettori del Times lo seppero il 14 novembre, venti giorni dopo.
A sentire oggi, nell’epoca dell’iper-connessione, un simile racconto viene da sorridere, ma c’è un gruppo di persone nell’evoluto occidente che ancora adesso per comunicare con un amico, un parente o chiunque voglia, impiega dei tempi simili a quelli di Russel.
Sono i detenuti delle carceri italiane che ancora oggi utilizzano carta, penna e francobollo (da quanto tempo non ne affrancate uno?) per comunicare con il mondo esterno. Essendo i colloqui visivi e telefonici autorizzati quasi esclusivamente solo per i familiari la parola scritta è l’unico veicolo per intrattenere rapporti con chi è fuori e quindi il detenuto è obbligato a rispolverare le proprie capacità “letterarie” per condividere questa parte di vita.
In media una persona “fuori” controlla il telefono duecento volte al giorno, che si tratti di posta elettronica, notifiche, tweet o messaggi di testo, mentre “da noi” si riceve o imbuca la posta una sola volta al giorno. Il momento in cui passa l’agente incaricato per distribuire la posta è uno dei momenti della giornata più carichi di tensione. Perché tanti sono coloro che aspettano spasmodicamente notizie dalla moglie, dai figli ecc. e se queste non arrivano nei tempi sperati o proprio non giungono non è raro che la situazione degeneri, incolpando quasi sempre la Polizia Penitenziaria, di non aver voluto deliberatamente consegnato le missive.
Al di là delle congetture complottistiche e paranoiche la reale situazione, che molti non accettano di vedere, è che qualunque tipo di rapporto umano ha bisogno di essere coltivato e molte volte scrivere non basta per far sopravvivere la pianta.
Certo le anime sentimentali diranno che è romantico redigere a mano le lettere, si soppesa e medita di più quello che si scrive e in parte hanno anche ragione (sull’argomento è interessante l’articolo su Internazionale del 12.2.2016, pag. 38 sul bisogno di social network più lenti, che cita il best seller di Daniel Kahneman “Pensieri lenti e veloci”), ma come ogni carcerato sa, NON BASTA! Questo perché ad essere il primo a diradare le comunicazioni è il detenuto stesso perché dopo anni di cattività è attanagliato dalla paura di non aver nulla da raccontare al di là di quello che avviene nel Penitenziario. È uno degli effetti della carcerizzazione: quello di vivere solo in funzione del mondo all’interno delle mura estraniandosi lentamente, ma inesorabilmente, da tutto ciò che è al di fuori. Così i risultati non tardano ad arrivare infatti si capisce subito da quanti anni una persona è in carcere dal numero delle lettere che riceve, infatti mentre un nuovo giunto ne riceve anche un paio al giorno una persona “avanti con gli anni” vede questo numero calare vertiginosamente.
Ma esistono anche degli aspetti positivi, nei primi mesi da “diversamente libero” si ha l’occasione di fermarsi un po’ dal vorticoso mondo che ci circonda e molte volte con il distacco che prima mancava si aprono delle nuove porte nel valutare fatti, emozioni e sentimenti. Dopo aver buttato giù di getto quanto si vuole esprimere si ha tutto il tempo per ripensarci, ricopiare in bella copia, far decantare tutta la notte e stilare la versione definitiva al mattino, depurata da tutte le reazioni istintive che la cronica insonnia ha affievolito.
Molti purtroppo sono in seria difficoltà davanti a carta e penna e in carcere tante sono le storie di ghost writer, io stesso ho scritto per mesi delle struggenti lettere d’amore per un ruspante ragazzo straniero (che ricopiava con la sua calligrafia) la cui fidanzata rispondeva estasiata per l’insolita ventata di romanticismo.
Iniziare a scrivere nel contesto carcerario permette inoltre di entrare in contatto con quella parte più profonda di noi stessi che spesso ci dimentichiamo di avere ma che ci rende completi. A molti è talmente piaciuta questa scoperta che sono diventati dei veri e propri scrittori (da Edward Bunker in poi), ma anche senza avere tali velleità ogni detenuto si è cimentato in racconti, le storie, poesie e i diari quotidiani.
Comprendere come la lentezza delle nostre comunicazioni è l’occasione per un vero confronto costruttivo frutto di un vero e sentito sforzo intellettuale, non esime dal continuare a pensare che siano necessari anche i mezzi tecnologici in modo da rimane al passo con i tempi e sperimentare un’altra velocità di pensiero/comunicaizone.

Letto 3455 volte

+ POPOLARI

  • Nel paese delle meraviglie +

    Nel paese delle meraviglie

    “Nel paese delle Meraviglie”, il nuovo numero di Letter@21 rende

    Leggi Tutto
  • Chef Sopravvitto: il libro +

    Chef Sopravvitto: il libro

    Chef Sopravvitto, (AA.VV), un libro che si propone l’obbiettivo di

    Leggi Tutto
  • Trasferire le emozioni +

    Trasferire le emozioni

    Giorno dopo giorno, mi rendo conto che le emozioni sono

    Leggi Tutto
  • 1

Chef Sopravvitto: il libro

abbonamento

Salva

Salva

Salva

Sostieni Letter@21 con una donazione
Puoi donare in modo protetto e sicuro direttamente da questa pagina tramite PayPal.