Mercoledì, 06 Luglio 2016 12:24

Il Polo Universitario di Torino

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Quando parlando con qualche visitatore esterno racconto di aver conseguito la laurea triennale in Giurisprudenza, e tra poco anche la Magistrale, la prima domanda che immancabilmente mi fanno è se il titolo conseguito abbia valore.

Ora, visto il grande numero di avvocati in Italia, si può discutere della spendibilità sul mercato del lavoro della laurea in Giurisprudenza, ma comunque la pergamena che il Magnifico Rettore mi ha consegnato ha il medesimo valore legale di quella di uno studente di Palazzo Nuovo (anzi del C.L.E.), e non si percepisce da nulla (tranne forse dalla mia data di nascita) che la tesi sia stata discussa “dietro le sbarre”.
Come più volte abbiamo scritto, la conoscenza del carcere e di quanto avviene al suo interno è molto limitata e veicolata attraverso gli stereotipi tipici dei prison-movie americani per cui immaginare che all’interno del carcere esista una vera e propria sezione distaccata dell’Università diventa difficile per molti.
Ma ormai nei penitenziari italiani esistono ben 14 poli universitari e i più rappresentativi e storicamente radicati sono: quello di Padova (con circa 50 iscritti), quello toscano (Firenze, Siena, Pisa, con circa 40 iscritti) e quello di Torino (una trentina gli iscritti).
Per accedere ad una sezione universitaria del carcere sono indispensabili una serie di requisiti, tra i quali il diploma di scuola superiore (di cui è in possesso, secondo il rapporto 2015 di Antigone solo il 10,8% dei detenuti), una pena residua da scontare che permetta il conseguimento della laurea e il non appartenere a circuiti detentivi protetti (sex offender, collaboratori ecc.) o speciali (reati associativi).
Ogni anno viene pubblicato un bando al quale rispondono detenuti da tutte le carceri italiane, disposti a spostarsi anche di migliaia di chilometri da carceri vicino casa per avere l’opportunità di investire sul proprio futuro impegnandosi nello studio.
Per quanto riguarda il polo universitario di Torino bisogna dire che è stato il primo, nel 1998, a strutturarsi ufficialmente con una convenzione tra Università, carcere e Compagnia SanPaolo che finanzia i libri e il materiale didattico. Prima che ciò avvenisse coloro che volevano intraprendere un percorso di studi universitario in carcere lo dovevano fare autonomamente, impegnandosi a contattare personalmente i professori e reperendo, con grande difficoltà, i testi.
Invece ora esistono una serie di strutture di supporto, come i tutor e gli operatori del servizio civile, che fungono da raccordo tra gli studenti-detenuti e i professori, fissando le date degli esami, procurando i libri necessari e organizzando, peculiarità del polo universitario di Torino, le lezioni.
I corsi di laurea ai quali si può accedere al polo universitario di Torino sono ufficialmente quelli di Giurisprudenza e Scienze Politiche, Matematica e Beni Culturali, ma, come già avviene in altri carceri, si sta cercando di ampliare l’offerta includendo più corsi, ad oggi ci sono un iscritto al corso di Matematica e uno al corso Beni Culturali, sempre tenendo presente la difficoltà ad organizzare laboratori e tirocini (previsti in alcuni corsi e non permessi dalla particolare situazione degli studenti privati della libertà).
È interessante notare che i risultati raggiunti da studenti-detenuti sono decisamente alti. Sarà che studiare in carcere comporta molte meno distrazioni rispetto ai ragazzi fuori e considerando inoltre che chi studia a 30, 40 o anche 60 anni lo fa con una diversa maturità non è raro assistere a discussioni di tesi premiate con il 110 e lode.
Un’importante considerazione va fatta sui tassi di recidiva dei laureati nei poli universitari, non esistono, a nostra memoria, dei dati ufficiali (anche se sarebbe molto utile rilevarli), ma ripercorrendo con la mente le storie di tutte le persone viste passare negli anni presso il Polo universitario di Torino, si può rilevare che rispetto al “normale” 68% di recidiva carceraria e al 20% di chi usufruisce di una misura alternativa qui si può dire di essere nell’ordine del 10%.
Già solo questa si può considerare una clamorosa vittoria e la conferma che se l’istituzione offre adeguati strumenti ai soggetti che ha in custodia restituisce dei cittadini migliori alla comunità.

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