Mercoledì, 24 Maggio 2023 18:05

Come un "vecchio" colorò il carcere

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Foto di Carlos Quintero su Unsplash Foto di Carlos Quintero su Unsplash

Il carcere è un luogo in cui nessuno vuole “andarci”, di cui a nessuno o a pochi piace parlare. È scomodo un po’ a tutti, forse per superstizione, ma anche per “imbarazzo”, sembra quasi che parlandone, chi ascolta pensi che l’interlocutore ci sia stato e quindi sia oggetto di riprovazione o vergogna. Chi ci vive però deve necessariamente convivere con le mille contraddizioni del posto.

Contraddizioni che molte volte sono carenze, limiti, bisogni. In questo contesto, dove il grigiore del posto giunge fino all’anima, non potendo cambiare l’anima, si prova a cambiare il posto.

Ho conosciuto un “vecchio”, distribuiva caramelle, un po’ a tutti, prima ai detenuti che incontrava, poi al personale di custodia. Lo faceva così, spontaneamente, sapendo che quelle caramelle gli davano in risposta non tanto il grazie di forma, ma un sorriso. Sorriso che non era unidirezionale, ma che incideva nell’umore della persona che ne fosse il destinatario facendogli dimenticare per un attimo il carcere.
Il “vecchio” era gratificato dall’aver dato un “piccolo piacere di gola” al destinatario di turno, perché in carcere le cose dolci, anche le caramelle, diventano un qualcosa di diverso, poi aveva cura di darle secondo i gusti di ciascuno.
Questo approccio si era talmente diffuso che molti lo attendevano per la caramella quotidiana, sia detenuti che agenti. Era un modo di iniziare la giornata ottenendo in risposta quel sorriso. C’è da dire che fra il personale vi era anche quello femminile, operatrici e agenti a cui il “vecchio” pensò di omaggiare in particolari ricorrenze uno dei simboli per antonomasia femminili.
Un fiore. In particolare una rosa.
Questo determinò una nuova visione del carcere, perché gli veniva permesso di farlo e lui ne era felice, perché anche nell’offrire quel simbolo necessitava delicatezza, per non sembrare invadente o offendere la persona a cui offriva il fiore. Ovviamente aveva cura del galateo, che imponeva un certo colore a seconda della persona a cui si donasse la rosa, proprio per il significato che esso poteva rappresentare.”

Nel tempo, il carcere ha assunto il colore di quei fiori, è più esatto dire che nel tempo quegli sguardi spenti, mattutini dipinti sul volto di tutti, indistintamente detenuti e personale che vi lavorava, si sono colorati anch’essi di un sorriso. Persone che non si salutavano, ora lo fanno.
Educazione ritrovata?
No, era solo mancanza di comunicazione, male sociale del III millennio, che come un’epidemia ha toccato anche il carcere. Il carcere è pur sempre una comunità forse scomoda per qualcuno, ma rimane una comunità, e allora, se bisogna riconoscere il carcere come sottoprodotto della società dei consumi, bisogna riconoscerlo anche come un posto in cui vi è una “parte della società”.

“Il vecchio questo l’aveva capito, forse era parte della sua indole, del suo istinto, forse era stato un idealista nella sua gioventù e credeva di poter cambiare quel “posto” con le caramelle e i fiori.
In parte c’è riuscito, perché aveva capito che le persone avevano bisogno di essere stimolate, incoraggiate, quelle caramelle erano una risposta alla solitudine, e quando non poteva donarle, quando finivano, si scusava del fatto che lo fossero, ma rassicurava che presto ne sarebbero giunte altre.”

Questa è una storia che forse è frutto di fantasia, forse è verità. Rimane quello che essa ha dato a questo posto, che notoriamente produce tristezza nelle persone che lo “vivono” e subiscono.
Quando si pensa al carcere si pensa al buio, al grigiore, allo squallore del posto, forse perché chi deve esservi rinchiuso deve trovare e provare quel buio.

Il “vecchio questo lo aveva capito e cercava di dare una “luce” a quel posto in cui aveva “vissuto” una parte di vita, forse troppo. Non poteva nelle sue membra stanche continuare a lottare come un tempo.
Era stanco e vinto dal tempo, ma non si era piegato, continuava le sue lotte da solo nella sua mente, alimentando le sue idee che gli facevano compagnia e lo facevano ritornare al passato.
Il tempo lo aveva “distanziato”, le persone avevano altri valori morali, quelli della società liquida decantata dai sociologi di una nuova generazione.”

La filosofia, quella delle caramelle, aveva “cambiato” un po’ il carcere dalle sofferenze del vivere. I fiori erano invece per colorare il posto, dando l’immagine che anche un “cattivo” può essere galante.
Era un dirlo con i fiori, come un vecchio slogan usato ed abusato del passato.
Il vecchio lo gridava in silenzio. Ma nessuno sapeva ascoltare. Il posto però aveva assunto una nuova luce, perché forse, forse quelle caramelle e quei fiori avevano addolcito chi doveva decidere un qualcosa.
Era solo un modo di voler vivere, vivere, vivere intensamente quelle emozioni che da tempo erano in lui compresse e tarpate, era quel sentirsi vivo per essere parte di quel posto, ma in un nuovo modo che non lo ricordasse come squallore, grigiore, sofferenza.
Un carcere dove si poteva anche sorridere, per un gesto gentile, dove le persone ritrovavano la natura umana soffocata dai bisogni egoistici dell’uomo.

Redazione

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