Lunedì, 04 Marzo 2024 17:32

Soliloquio del liberato

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Foto di Luca Franzoi su Unsplash Foto di Luca Franzoi su Unsplash

Ho la penna in mano che vomita inchiostro su questo logoro foglio che chiede pietà per la forza ed energia che imprimo fino a lesionarlo, divelto come le ferite che mi si schiudono ogni volta che scrivo queste lettere per quelle persone ancora in carcere che posso chiamare amici.

Fisso il vuoto nella speranza di trovare le parole, un nodo in gola mi stringe, quasi a farmi perdere il respiro, una sensazione pari al soffocamento attenta alla mia persona, la tachicardia sale, chiudo gli occhi.... li riapro, sto tremando.
Sono solo, senza nessuno intorno, non sento urla, non ci sono rumori molesti, mi guardo accanto ma nessuno ho vicino.
Vuoto dentro come la casa in cui abito.
Rabbrividisco al pensiero di cosa mi balena in testa, possibile che sento la mancanza del carcere?

Questa sensazione di solitudine mi divora, eppure la agognavo.
Non c’era giornata in cui non avrei gradito i miei spazi, quanto desideravo potesse presentarsi un giorno anche a me la possibilità di stare tranquillo con me stesso.
L’illusione di potermi mettere in un angolo a meditare era qualcosa d’improponibile.
Eppure, ora sono sul tappeto impolverato di tempi e giorni di adoperabilità utile per le arti meditative.
Ora qui non vola una mosca, è il luogo ideale per il suo utilizzo, guardo lo sporco e la polvere che lo ricopre e mi viene impensabile considerare di pulirlo.
Chi sono io per togliere il corso degli anni di accumulo nel pulviscolo ormai amico, e quei panciuti acari che in mia assenza hanno proliferato e messo su famiglia su questa morbida stuoia. Come posso azzardare e farmi carico del ruolo di giustiziere di questi simpatici esseri?
Sono io ora l’ospite, anche se sono in casa mia. L'ho lasciata incustodita e chi va all’osto perde il posto.  Anche perché per tanto tempo non l’ho curata e ora è lei che deve accettare me, prima di riprendere padronanza di questo luogo spoglio di blindi e senza sbarre.
Divenute ormai distanti da ciò che è il mio ordinario.

Il malessere continua e s’inerpica per tutto il busto.
Che strano tutto questo: eppure, comprendo cosa sia e so cosa vuol dire questa sensazione che mi tormenta. Semplicemente mi sento solo… Guardo la mia camera e quel letto così grande, così morbido, così vuoto… è troppo per me, resta libero a metà quando ci dormo dentro.
Quando stavo in galera ero abituato a stare in un misero spazio perché non si hanno molte risorse, e la branda è piccola e inospitale. Un letto così lo supplicavo ogni notte e ora che lo possiedo, lo trovo troppo abbondante. Perché?
È possibile sentirsi in colpa per i ragazzi che ho lasciato là sapendo dove riposano?
Oppure semplicemente non riesco ad accettare la mia sola compagnia.
Queste voci sono solo le giustificazioni che do al mio cervello per non pensare troppo. È chiaro che sono solo triste perché nonostante il dolore e il malessere della chiusura, questo è lo strascico lasciato dal carcere. Sento nel profondo che qualcosa mi manca.

Comprendo di azzardare con queste parole, ma cosa mi resta della reclusione è la lacuna della compagnia. Perché vuoi o no, non si è mai soli. Trovare lo spazio per rimuginare e stare con i tuoi mostri non è sempre possibile; quindi, si ha la libertà di non essere divorato dal tuo inconscio, grazie alla continua e assidua presenza di persone.
Zero privacy!
Non hai nemmeno i tuoi spazi più intimi. Quando sei in bagno capita di ritrovarti sulla tavoletta mentre c’è qualcuno che si lava i denti, che ha anche il coraggio di strabuzzare il naso per i cattivi odori. La causa non è tua, ma del temerario avventuriero che non ti lascia neanche tranquillo mentre stai facendo i tuoi bisogni. 

Credo che queste riflessioni siano solo un mio arrampicarmi ai ricordi, per darmi un po’ di calore, quel benessere della compagnia. Perché nel silenzio di questa camera, a cui in apparenza non manca nulla, anzi è forse troppo fornita per sostenere i miei basici bisogni, chi sta male sono io. Per la mancanza di materiale antropico.
Perché, quando ti abitui alla costante presenza di esseri umani, è difficile ritrovare pace con sé stessi se abituati a trovarla con gli altri. Quando stavo male, qualcuno lo capiva e mi supportava, se il malessere sfociava in crisi isteriche, qualcuno mi comprendeva e mi dava la lucidità per non comportarmi in maniera stupida, facendomi ragionare e rassicurandomi solitamente col monito del “un giorno tutto questo finirà”.

Ora la parola “fine” pena è arrivata. E sai quanto è brutto però avere tutte queste bellissime emozioni di una fine carcerazione e non poterlo raccontare a nessuno. 
Tutto questo può essere una ipotetica galera inventata dalla mia mente?
Oppure davvero ho vissuto un qualcosa che non si può raccontare a tutti e nessuno può capire se non ci è stato in prigione, come faccio a raccontarlo a chi non ha vissuto queste situazioni, non lo capirebbe... qui fuori... quello che dentro si prova.
La mia conclusione non è che mi manca il carcere, però, forse, mi mancano le persone che ho lasciato, tutte accumunate dallo stesso dolore che insieme si provava a superare.
Ci reggevamo insieme senza crollare, e se le forze venivano meno, almeno uno ti tirava su lo spirito. Quest’unione era l’unica cosa che ti teneva vivo.
E più ascoltavi le storie tristi di persone con la vita rovinata o buttata in galera e più la forza di non mollare diventava energia.
Voglio lottare anche per loro, per non ricadere nello stesso baratro e nei loro errori.
Preferisco soffrire questa mancanza di amicizie, consapevole che se stessi bene con la mia solitudine non sarei comunque a mio agio con me stesso.

Redazione

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