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Venerdì, 15 Settembre 2017 09:45

La fratellanza: il film di Ric Roman Waugh

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Non andavo al cinema da oltre 7 anni, da quando in un piccolo cinema di Savona ho visto il bellissimo “Il profeta”. A essere preciso al cinema sono ritornato nel novembre 2016 per partecipare, come giurato e redattore di Letter@21 a un concorso di cortometraggi, ma era la prima volta che uscivo dal carcere dopo anni (6 anni, 5 mesi e 22 giorni per la precisione) ed ero decisamente confuso e inoltre quelli visti non erano film.

Quindi non poteva esserci occasione migliore di un piovoso sabato pomeriggio preautunnale coincidente con un giorno di permesso per  organizzarmi con una cara e molto bella amica cinefila per riprendere la visione  di film su grande schermo. Non è un periodo di grandi uscite cinematografiche e per virtualmente ricongiungermi alla mia ultima visita in sala ho scelto un altro prison movie, ossia La Fratellanza diretto da Ric Roman Waugh.
La trama è quanto di più classico ci possa essere: broker di successo, con una vita e una famiglia perfetta, finisce in prigione per aver causato accidentalmente la morte di un amico. La vita all’interno del penitenziario americano, tra i pericoli della detenzione e le ostilità tra gang rivali, si dimostra subito difficile e il nostro protagonista non accetta nessuna prepotenza perché sa che sarebbe il prodomo di una discesa agli inferi di sopraffazione. In brevissimo tempo vede triplicarsi la sua condanna e si laurea all’“Università del carcere” a pieni voti, tanto da essere ammesso nella famigerata Fratellanza Ariana. Ma il suo incubo non termina neppure al termine della pena, infatti scarcerato dopo 10 anni in libertà vigilata, è costretto a gestire dei loschi traffici altrimenti ne pagheranno le conseguenze la moglie e il figlio.
Anche se la sinossi non aggiunge nessun elemento di novità rispetto a molte pellicole  sull’argomento già viste (il già citato “Il profeta”, “L’uomo di Alcatraz) diversi sono gli spunti interessanti. Ad esempio il film parte dal momento di uscita dal carcere di Jacob (il protagonista) e si divide tra i tanti flashback della sua vita passata e quella attuale che evidenziano esponenzialmente la plateale mutazione del protagonista. Da faccia pulita si fa crescere baffi a manubrio, i capelli e si copre di tatuaggi (per capirci del tipo White Pride) a caratteri cubitali sulla schiena, per non parlare di quanto agisce sul suo fisico. Perché solo il più forte sopravvive e può diventare l’uomo al vertice della catena di comando, lo “shot caller” del più calzante titolo originale. Quella messa in atto nella quotidianità del carcere è una vera e propria mutazione antropologica che riporta l’uomo a contatto con le proprie radici animali.
Nonostante il regista abbia lavorato per ben due anni sotto copertura come agente volontario in un penitenziario della California (e questo non è che depone a suo favore..), quelli che mancano sono gli approfondimenti psicologici che non permettono di sottrarsi agli stereotipi del genere. E infatti quello che ci chiediamo (e che vorremmo chiedere al protagonista) è se sia davvero possibile che in così breve tempo un tranquillo e pacifico uomo di successo si trasformi alla velocità della luce in un feroce e temuto assassino. Cosa ci vuol dire il regista, che dentro di noi esiste un latente lato oscuro che aspetta solo l’occasione per mostrarsi in tutta la sua brutalità o forse ci si è adagiati sullo stereotipo dell’uomo che cambia, in peggio, in carcere? L’aspetto debole è la scontata scelta, nel senso che Jacob ha deciso senza il minimo dilemma morale quale strada prendere. E invece no, io credo fortissimamente che esiste sempre un’altra strada, un'altra decisione da poter prendere, magari più difficile, più complicata, più in salita, ma che però ci permette di vivere in pace con noi stessi e con i nostri principi interiorizzati.

D. G.

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